domenica 1 luglio 2018

Partizan, Parisan, Partisaanka. Il carattere internazionale della Banda Mario. di Matteo Petracci


Ponte di Chigiano (San Severino Marche),
1 luglio 2018


L'intervento che oggi presento è frutto di una ricerca che sto conducendo da tempo sui partigiani somali, eritrei ed etiopici che hanno combattuto con la Banda Mario, nell'area del Monte San Vicino.
La Banda Mario era una banda multietnica. Al suo interno si parlavano almeno otto lingue diverse, forse dieci o forse di più, e si professavano almeno tre religioni (cristiana, ebraica e musulmana). Tra loro c'era anche chi non professava nulla.
Vi sono state consegnate due foto, che ritraggono alcuni uomini della banda. Queste foto, grazie ad un'intuizione dell'Anpi di San Severino Marche, sono state riprodotte molte anni fa e distribuite in centinaia di copie. Il primo ad averle mostrate, almeno a me, è stato Bruno Taborro.
Mario Depangher, il loro comandante, era evidentemente una persona speciale, in grado di trasformare donne e uomini così diversi in un'agguerrita formazione militare. Depangher creò, consolidò e mantenne un'eccezionale alchimia, in grado, ancora oggi, di trasmettere un messaggio a mio parere molto significativo.

Vediamo la foto n. 1:
In piedi, partendo da sinistra, si possono riconoscere:  Nicola Budrinie e Mirco Gubic (jugoslavi), Ivan Dovcopoli e Stefan Ponomarenco, (russo), Mosé Di Segni (ebreo), Frane Tralaja, (jugoslavo), Don Lino Ciarlantini, Cesare Manini, Ivan Rienicenco, (russo), e Cesare Cecconi Gonnella. In basso, invece, sempre da sinistra:  Raico Giuric, (jugoslavo), Bruno Taborro, Vassili Simonenco e Ivan Vasilienco, (russi), “Carletto” Abbamagal, (etiopico), Sergio Cernievev, (russo), Luigi Verdolini e, infine, Mate Gispic, (jugoslavo).

Una foto non è solo un immagine fissata nel tempo, è un racconto di noi stessi, di un evento o di un momento particolare che abbiamo vissuto.
Anche oggi, abituati meccanicamente ai selfie, prima di scattare una foto spesso ci specchiamo velocemente, oppure, prima ancora di pubblicare una nostra immagine su un social network, guardiamo l'anteprima, per vedere se siamo in ordine, se c'è qualche particolare che c'è sfuggito, perché stiamo parlando di noi e vogliamo raccontarci al meglio.
Settantaquattro anni fa ciò valeva ancor di più, perché farsi una foto era un evento raro, che suggellava un passaggio importante (la nascita di un figlio, un matrimonio, oppure l'esperienza da militare).
Anche questi uomini, con questa immagine, hanno voluto raccontare loro stessi, e nella sequenza che adesso vedremo, ci sono i contenuti del loro racconto.

Adesso prendiamo la foto n. 2.

Questa è in realtà la prima foto della sequenza. Bruno Taborro mi ha raccontato che, dopo aver scattato, il fotografo e i presenti hanno visto Carletto l'etiopico e lo hanno invitato a mettersi in posa con loro.
Nei pochi secondi trascorsi tra una foto e l'altra, nella decisione di ripetere lo scatto, c'è il loro messaggio, la loro determinazione e la loro consapevolezza rispetto al senso che acquisiva la loro lotta.
La seconda guerra mondiale imperversava sui continenti e negli oceani. L'obiettivo del nazismo, del fascismo e dell'imperialismo giapponese era quello di costruire un ordine mondiale basato sul razzismo, la prevaricazione, la violenza e lo sfruttamento.
L'Europa doveva essere ridisegnata. Gli ebrei dovevano essere eliminati. I popoli slavi dovevano essere ridotti in schiavitù, l'Unione sovietica trasformata in colonia per i tedeschi, così come l'Africa, che avrebbe dovuto essere assoggettata al dominio schiavistico nazista e fascista.
Nella loro volontà di ripetere lo scatto, allora, richiamando un africano per farlo immortalare insieme agli altri, facendolo sistemare tra due russi ed un ebreo, essi hanno voluto parlare della posizione che avevano assunto rispetto agli eventi che stavano vivendo.
Hanno voluto raccontare loro stessi, per dire che, anche se tutto sembrava crollare, loro non avevano perso di vista la necessità di essere giusti, e avevano deciso di combattere, armi alla mano, contro chi metteva l'uomo contro l'uomo.

Questa foto è perciò qualcosa di più di una semplice istantanea. Ė un testamento iconografico, un messaggio di solidarietà internazionale e di fratellanza tra i popoli.
Nella Banda Mario avevano trovato posto donne e uomini di tutti i paesi. Il requisito era la buona volontà, non la nazionalità.

C'erano italiani (soldati sbandati, preti e giovani, per lo più contadini).
C'erano jugoslavi (provenienti da Colfiorito e da altre località di internamento, fatti prigionieri durante la sanguinosa occupazione messa in atto dall'esercito italiano nel loro paese). Partizan è l'equivalente di partigiano, tradotto nella loro lingua.
C'erano russi (fatti prigionieri dai tedeschi nella loro terra e portati in Italia a lavorare forzatamente per scavare trincee e costruire difese).
C'erano ebrei (scampati ai rastrellamenti in Italia o fuggiti dalle località di internamento per salvarsi dalla deportazione in Germania).
C'erano inglesi (scappati dai campi di Sforzacosta e Monte Urano, che poi, aiutati dai contadini, avevano raggiunto il san Vicino).
C'erano inoltre degli africani: somali, eritrei ed etiopici portati in Italia nel 1940 per essere messi in mostra, come gli animali dello zoo, poi trasferiti a Treia per ragioni di sicurezza e, dopo l'8 settembre del 1943, scappati dal luogo dove erano rinchiusi e indirizzati dalla popolazione contadina verso la Banda Mario. Partisaanka è l'equivalente di partigiano, tradotto in somalo.

Tutti scappavano dalle persecuzioni e dalla morte, e tutti avevano il Monte San Vicino come punto di riferimento. Tutti sapevano che qui avrebbero trovato tregua e ospitalità.
La Banda Mario li avrebbe accolti.
Il Monte san Vicino sarebbe stato il loro porto, aperto e sicuro.

Nelle testimonianze e nelle memorie di chi qui ha combattuto, si può leggere che, nei periodi più duri dell'inverno, tra la fine del 1943 e il 1944, la Banda Mario si era ridotta molto di numero, pur senza mai sciogliersi, nonostante fossero disorientati, inseguiti, braccati.
Dell'estate successiva, invece, il 1° luglio del 1944, giorno della liberazione di San Severino Marche, Bruno Taborro ha raccontato la gioia vissuta, i balli e i canti. In piazza, a festeggiare, erano tantissimi: russi, francesi, inglesi, somali, eritrei, etiopici,  jugoslavi e, naturalmente, italiani. Tutti insieme, senza distinzione.

Io sono sicuro che tornerà l'estate, e saranno ancora una volta le donne e gli uomini di buona volontà a preparare il ritorno della bella stagione.
Allora saremo chiamati a ricordarci di chi, durante l'inverno, ha sbarrato il proprio uscio, mettendo ancora una volta l'uomo contro l'uomo.






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